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Il Magnificat e la Croix de Bois A Noceto vi era una filarmonica
sin dall'inizio del secolo. Ed è certo che ottimi fiati accompagnassero
la comunità nelle cerimonie e nei riti del folclóre locale. Ricordo che era un giorno brumoso
d'inverno quando mi si parlò di questa idea: si voleva dar vita ad una
corale di giovani, di fanciulli, di voci bianche. Si aveva bisogno di
cantare, tra absidi, sagrati, profumo di incensi, i "Magnificat"
un poco reboanti che segnavano la fine delle Novene natalizie. Erano
giorni interminabili. Nei quali si riusciva a fare un sacco di cose.
Quando i passatempi non erano i giochi, diventavano piacevoli le lunghe
discussioni, con quegli amici in tonaca che erano i preti della
parrocchia. Chi ritenga che una infanzia passata all'ombra del campanile
possa essere foriera di fanatismi religiosi, non sa quanto dice una cosa
ingiusta. Quanto mi augurerei di trascorrerla ancora così come
l'ho passata e quanto essa coincida, e il più propriamente, con quanto ho
sempre più sinceramente amato! Era durante gli interminati e interminabili pomeriggi
che trascorrevamo a incespicare sui primi dubbi della filosofia
presocratica, quelle filosofie che tanto ci mancano e che tanto mancheranno
se il mondo dovesse condannare ancora una volta la cultura e l'amore per la
cultura; era in quei pomeriggi interminati anche del quotidiano
approssimarsi dell'aoristo che ti attendeva con lo studio da compiervi
sopra, a casa; era in uno di quei pomeriggi nebbiosi che scoccò la
scintilla. Ricordo: si era dietro l'abside della chiesa di San Martino. Si voleva dare vita ad un piccolo Coro vestito di
bianche cocolle. I
Piccoli Cantori del Mattino nacquero così in un pomeriggio e nella
disperazione di un attimo, nella cattolicissima volontà di persistere in
un disegno di attività e di cultura, che per tanti di noi poteva essere
interpretato come atto di omaggio ad una tradizione di cultura; che per
molti di noi coincideva con l'omaggio da rendersi senza ubbie e senza
vergogna ad una cultura di cui siamo certamente figli. A caccia
di monasteri I cantori nelle loro ingenuità si misero in caccia di
monasteri e di conventi, di santuari e di cappelle. Non era fanatismo, lo
ripeto. Il fatto è che entro i volti e le crocere le voci assumevano un
tono e un'intonazione che attutivano le giovanili ingenuità. "Altissima
luce col grande splendore...". Recitavano le prime laudi. Ad esempio una delle prime escursioni avvenne sulle
orme dei grandi pellegrinaggi alpini. Ad Oropa, il monastero era avvolto
dalle nebbie. Come quello di Adso e di Gugliemo di Baskerville nel romanzo
di Eco. A differenza di quello di Einsiedeln, che è
cristallino ma seicentesco come quello prealpino, forse, anzi certamente più
ricco di codici, di stucchi barocchi e di pagine miniate del tardo-gotico,
Oropa era più spartano, più modesto, senza onori e orpelli. Ma Einsiedeln
rimase più di una tentazione. Riuscì il viaggio in avanscoperta. Non
quello a seguire, poiché la Confederazione Elvetica da sempre rappresentò
una zona franca e piuttosto cara per il turismo musicale dei cantori. Gli
studi ginnasiali non mi consentirono di aderire alla corale, se non con lo
spirito (non ancora con la voce, che per quanto mi riguardava allora era
nella fase della mutazione). Sicchè quegli splendidi anni settanta che per
molti della mia generazione restano gli anni della giovinezza e delle prime
acerbe scoperte, così come avevano visto estinguersi un nobile tentativo videro
fiorire una nuova realtà, diversa
e a suo
modo
stimolante. Dopo La Lucciola, che era un Coro ben orgazzato
e compiuto,
con tanto
di maestri concertatori e direttori, un solido consiglio di
amministrazione, una sede ben strutturata, un saldo radicamento, un suo
stile in smoking ed elegante tailleur in rosso, dopo il grande impegno vennero i Lucciolini,
un tentativo di dare prospettiva di continuità al Coro principale. Operare in un paese piccolo, ma agguerrito, tenace,
ma distratto perchè tanto vicino alla "città", (Parma, Milano,
ecc.), non doveva essere semplice. Tenere insieme quasi una sessantina di
voci, non doveva essere impresa facile, nonostante quella fosse l'epoca
d'oro della riscoperta del canto corale, della tradizione folclorica ben
fatta, con a monte magari una ricerca ed uno studiato recupero filologico
dei testi del patrimonio musicale padano. Canti monodici, abbelliti dal
virtuosismo spontaneo di taluni, quella tradizione semplice e piana che
accompagnava l'umile ricorrere dei lavori sul greto dei fiumi, nei campi
assolati della pianura, nei mesi dei raccolti, nelle ricorrenze della
borgata. Fu allora che I Piccoli Cantori del Mattino vennero a sostituire le voci temprate di artigiani, contadini e operai. Lo fecero con mitezza e con rispetto. Nella loro chiesa di San Martino, dinnanzi al quadro di Scaramuzza, con il Santo che taglia il mantello per il pellegrino. Dinnanzi a quelle pale d'altare, povere e benedette, le voci sottili e bianche sostituivano i toni attempati degli adulti nel "Magnificat".
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